lunedì 16 marzo 2015

Quando leggerezza non vuol dire superficialità: una lezione giapponese

TITOLO: Kitchen
AUTORE: Banana Yoshimoto
EDIZIONE: Feltrinelli
PAGINE: 148
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9 e mezzo

Quando le cose bisogna dirle, bisogna dirle e basta.
Avevo paura di leggere questo libro. Dal punto di vista letterario, è stata la prima autrice nipponica a cui mi sono avvicinata e, siccome sapevo che Kitchen era il suo romanzo d'esordio, straordinario successo in tutto il mondo, avevo davvero paura che non mi piacesse (per quale strano e razionale motivo, poi, non so).
Così, il primo libro della Yoshimoto che ho letto non è stato questo, ma Tsugumi, molto meno conosciuto e chiacchierato. Insomma, volevo fare una specie di prova, prima.

Poiché mi piacque, decisi di leggere finalmente Kitchen.

Kitchen è un libro minuscolo. In realtà è costituito da due racconti, uno lungo, uno molto più breve, a chiusura di libro.
La bellezza di questo piccolo gioiellino è la sua delicatezza. Le frasi, l'articolazione delle descrizioni e dei dialoghi sono lievi come un sospiro. Un venticello primaverile che soffia tra i fiori di ciliegio.
Non è un romanzo che dà risposte, al limite pone molte domande, non vuole essere definitivo, ma rimane sospeso come un'amaca su un giardino assolato.
I temi del racconto, nonostante la sua brevità, sono molti e non sono assolutamente trattati in maniera superficiale. Amore, morte, elaborazione del lutto, ingiustizia, passioni, amicizia, solitudine, sessualità.
Questo perché la Yoshimoto sa come stringare al minimo un concetto, strizzare fuori tutte le parole inutili e lasciare solo il cuore del significato. Non servono tutte le parole del mondo (né tutti gli avverbi) per esprimere un sentimento, ma solo quelle giuste, quando si trovano.
E questa autrice pare trovarle sempre.
A me è bastata la frase iniziale per innamorarmi:

Non c'è luogo al mondo che io ami più della cucina.

E non venitemi a dire che non volete saperne di più.
Magari vi immaginate una protagonista cicciona che è interessata solo al cibo. O un'anoressica ossessionata.
Forse all'inizio, leggendolo, non comprenderete nemmeno la sua passione, perché in fondo la cucina oggi non è quel luogo di ritrovo che era prima, oggi è quasi un luogo di appendice. Ma la nostra protagonista la mette al centro della sua scena, come luogo della famiglia, un luogo in cui si sente al sicuro e protetta, in cui non c'è altro suono che il ronzio del frigo o l'acqua che scorre o il pranzo/la cena che bolle.
Un luogo pacifico, che la aiuta durante il periodo più nero della sua vita, ma anche il posto a partire dal quale giudicare le persone, il loro carattere, la loro predisposizione alla vita.

Questo racconto è tipicamente giapponese. L'attenzione per le piccole cose, i silenzi, gli sguardi, le timidezze. Sono cose che noi occidentali non possiamo capire. Mi ci metto anch'io perché, nonostante ami da morire quel Paese e mi vanti di capire meglio di altri i suoi sottintesi, non posso comprenderlo fino in fondo. E' vero che anche questo fa parte del suo fascino, ma è una cosa che mi fa un po' soffrire.
Non lo capisco, ma quando leggo mi sembra di avvicinarmi un po' di più al suo modo di pensare, mi sembra che la mia mente si apra e colga riferimenti e stati d'animo che da sola non sarei riuscita a cogliere. E i libri della Yoshimoto sono spettacolari in questo: spesso i critici hanno definito il suo stile come una specie di manga in prosa, a volte con accezione negativa, ma in realtà è proprio questo. I suoi racconti hanno la freschezza del manga, il suo linguaggio semplice ma d'effetto, le sue atmosfere leggere anche quando si tratta di argomenti profondi.
In questo l'autrice è molto, molto diversa da Murakami (e anche da Mishima) ma non posso dire in meglio o in peggio, semplicemente perché per me non sono proprio paragonabili.
E' come se lei ti offrisse un posto caldo e luminoso per pensare alle cose brutte, per elaborare un lutto o per parlare con il tuo ragazzo. Il tutto senza drammi particolari perché, ricordiamocelo, la vita è fatta di cose belle e di cose brutte e in fondo va anche bene così.
Mikage è una ragazza sfortunata alla quale sono capitati molti lutti (genitori prima e nonna poi), che l'hanno lasciata sola al mondo. Ma non per questo si è mai scoraggiata, nonostante gli ovvi momenti di sconforto di tanto in tanto.
Rispetto ad altri lavori della Yoshimoto, Kitchen è ottimista, lascia sempre uno spiraglio di luce (e quindi di speranza), senza contare il lieto fine, che quasi sembra sfuggire, ma poi arriva e ci fa tirare un sospiro di sollievo.

Perché leggere Kitchen? Perché secondo me insegna a prendere la vita come viene, senza troppi problemi, pippe mentali e soprattutto senza falsità. Tanto i drammi accadranno sempre, che noi siamo pronti o no, ma se cerchiamo di viverli il più serenamente possibile magari ci accorgeremo che davvero tutto passa e noi siamo sempre qui.

Anarchic Rain

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