lunedì 25 luglio 2016

Carne e sangue di Michael Cunningham

Michael Cunningham colpisce ancora.
Con più potenza.
Dritto al mio cuore.

Ho iniziato a leggere questo autore i primi anni di università, con Una casa alla fine del mondo, che mi era piaciuto tantissimo. Ho continuato l'anno scorso con Le ore (anche questo costruito alla perfezione), per finire (ma solo per ora) con Carne e sangue.

Qualche recensione letta qua e là mi informava che questo libro non aggiungeva niente a quanto già scritto dall'autore, ma dopo averlo letto posso dire di non essere assolutamente d'accordo.
I temi trattati sono quelli a lui cari, ovviamente, quale scrittore che abbia un minimo di buonsenso non scriverebbe ciò di cui sa meglio? Ogni scrittore/scrittrice che io conosco, che abbia scritto più di un libro, ha il proprio (o i propri) tema fondamentale, da cui raramente si scosta. Però si può scrivere della stessa cosa in modo diverso o da punti di vista diversi, o arrivarci per vie diverse. E se uno è bravo, è sempre un piacere accompagnarlo nel viaggio.

Per me Cunningham è bravo. Scrive di persone che la vita ha in qualche modo punito, con un'infanzia dolorosa o una malattia o la morte di una persona cara, ma riesce sempre a descrivere personaggi affascinanti, nei quali magari uno non si riconosce, ma per cui non si può non provare almeno pietà.

Questo libro descrive i cento anni di una famiglia greca immigrata in America, la insegue nelle sue battaglie, nelle sue soddisfazioni e nelle sue illusioni. Nella morte e nella depravazione. In ogni anfratto della sua anima.

Prima i genitori, Constantine e Mary, poi i tre figli, Susan, Billy (Will) e Zoe e i nipoti, Ben e Jamal.
Sarebbe facilissimo dire quale mi è piaciuto di più e quale di meno, ma credo che a nessuno freghi niente, meno che meno all'autore.
Perché? Perché ha creato un mondo di personaggi interessanti e in qualche modo difettosi, tutti da amare nonostante e forse a causa dei loro difetti.
A ognuno manca qualcosa: a Con il senso della misura, a Mary e Susan il coraggio, a Billy la responsabilità, a Zoe il senso della realtà, a Ben l'umiltà. Jamal è l'unico che sembra rimanere integro. Eppure anche a lui manca qualcosa: lo spirito. A me sembra come una spugna che tutto assorbe (l'amore di sua madre, il desiderio/ossessione di suo cugino, la curiosità degli zii, la diffidenza del nonno) e da nulla è scalfito, come se tutto gli passasse addosso senza lasciare traccia o meglio senza provocargli altro che sorpresa momentanea. Allo stesso modo un bambino di 3 anni riceverebbe un regalo sul momento bellissimo, dimenticato dopo mezz'ora.

Il tema dell'AIDS così caro a Cunningham è descritto forse più ampiamente rispetto a Le ore e Una casa alla fine del mondo, ma mai con prosaicità o pateticità, anzi, ne parla senza farne drammi non richiesti, senza spettacolarità. Come se dicesse: sono cose che capitano, sono brutte, ma bisogna prenderne atto e sbrigarsi a fare le cose che si devono fare prima di salutare e andare via.
Mi piace questo modo di vedere le cose.

Questo è uno di quei libri che non hanno niente di gioioso, niente che sollevi lo spirito, o che aggiunga serenità all'esistenza. E' invece uno di quei libri che graffiano e lasciano senza fiato.

Ve lo consiglio, ma con cautela, perché anche se sul finale c'è una piccola luce che potrebbe significare l'uscita dal tunnel, questa potrebbe essere più lontana di quanto non sembri.
State attenti.

Anarchic Rain

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